Il Vecchio che Leggeva Romanzi d'Amore
Un uomo mi viene incontro con un cane al guinzaglio, lungo la strada alberata che sembra portare al tramonto. Io, scaldato dall’ultimo rossore serale, respiro profondamente e mi godo il quieto ritorno. Addolcito dalla comparsa delle prime verdi fronde, mi accingo all’uomo con un sorriso. E’ ormai in mia prossimità, quando schiudo un saluto cordiale: il saluto complice di chi sa di condividere un bellissimo segreto che altri ignorano, di chi conosce la campagna e vorrebbe, nel segreto, tenerla per sé; ma l’uomo, smorto, con la faccia innervosita, abbassa lo sguardo e mi oltrepassa.
Il tempo delle nostre vite non si trattiene più insieme, disarmonico, perde unità e integrità col tempo dell’anima. Maledetta mia gente, quanta chiusura, quanto introverso nevrastenismo, quanta repressione: siamo talmente pervasi dalla “proprietà privata” da rischiare un autismo cronico, un autarchia delle emozioni in cui anche il più accorto saluto potrebbe sembrare un’intrusione.
Questo banalissimo episodio, che Georg Simmel avrebbe definito di anomia urbana, può aiutare a comprendere la sottile-dialettica-essenza de “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore” di Luis Sepulveda.
“Il vecchio che leggeva romanzi d’amore” è un romanzo di divisione, un romanzo duale, di dicotomie, di storia nella storia, il racconto di un uomo e quello di un paesaggio, di un paese e della sua foresta, pagine di denuncia e di poesia. Come nell’esempio dell’uomo col cane, anche nelle pagine di Sepulveda, s’incontrano due personaggi antitetici, il vecchio colono pacificato con la foresta e con gli indigeni e i nuovi gringos, nella fattispecie rappresentati emblematicamente dal sindaco viscido e ciccione, detto “El Lumaca”. Come nell’esempio, i due personaggi agiscono sullo sfondo di un paesaggio che dovrebbe riconciliare, un paesaggio suggestivo, catartico: la foresta pluviale, con le sue essenze, la sua ricca fauna, i suoi segreti tesori. In entrambi i casi, non c’è accordo, regna la disarmonia e mentre io non riesco a condividere la mia quiete dell’imbrunire, il vecchio colono, di nome Antonio Bolivàr, non riesce a godere dei suoi romanzi e vede minacciata l’immacolata incolumità della foresta pluviale. La trama si slega così naturalmente che tutto pare ovvio e naturale. Già dalla prima dicotomia, ci si schiera subito con i “buoni” e si impara a disprezzare i “cattivi” del libro. La descrizione delle ingiustizie, dell’ignoranza dei colonizzatori della foresta, la corruzione degli amministratori e tutte le altre componenti della storia, si armonizzano perfettamente. Mentre si legge si ha quasi la sensazione di trovarsi di fronte ad una storia vera, se non per il fatto che tutto è sfrontatamente separato a metà: il bene dal male, il senno dall’ignoranza, il giusto dall’ingiusto, la bellezza dalla sproporzione.
La puerile arroganza dei gringos, impegnati nella loro conquista, indifferenti alla vita e ai suoi splendori, impedisce al vecchio uomo di sorbire dolcemente le parole dei suoi romanzi, studiati lettera per lettera, pagina per pagina, vissuti minuto per minuto, con la dovuta concentrazione. Romanzi d’amore: gli unici presenti nella colonia, argomento di contrabbando, romanzi che accompagneranno la sua fantasia in tutti i luoghi del mondo, lontano, nell’immaginazione, al riparo dalla crudezza della vita, della vedovanza, della solitudine e dei soprusi coloniali.
Si procede per continui bipolarismi, prima attratti dal magnetismo della lettura, dei suoi meccanismi più semplici, e poi dalla venerazione stupenda per la natura; si avanza lungo due binari paralleli che vanno dritti alla denuncia del colonialismo novecentesco. La natura duale del racconto si palesa in tutta la sua essenza in un preciso istante del libro: nell’episodio in cui, la femmina di giaguaro, uccide, per amore dei suoi cuccioli barabarizzati dai colonizzatori bianchi. In questa scena Sepulveda tenta di condensare le polarità: la fragilità nell’aggressività, la poesia nella bestialità, la complicità, tra il vecchio e la belva, nell’antagonismo.
Scrittura piana e semplice, lasciata ai monologhi del vecchio Bolivàr e a brevi descrizioni, intrisa di accusa, ma anche di speranza. Un romanzo che pare, dalle prime pagine, lasciarsi ad una morbida e veloce lettura, ma che scava, lentamente, insistentemente, nel fondo dell’anima, permeandoci delle impressioni tropicali, delle dissonanze delle vicende, di faccende che vengono trascese e rimangono, come scarna impalcatura di una denuncia, nuda allegoria del reale, metafora estremamente critica di un quadro compiuto: una denuncia che si apre per poi tornare negli immaginifici margini della poesia, per ridarci il senso reale delle pagine, nelle pagine dei vecchi romanzi. Libri coi quali, il vecchio Bolivàr, può raggiungere mondi paralleli, disconoscere il mondo coloniale e, nel buen retiro della sua capanna, godere dolci gamberi, qualche sorso di Frontera e romanzi rosa che, all’occorrenza, sanno anche diventare indispensabili.