Normanna Albertini
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Col suo “Isabella” lei lumeggia una pagina della nostra storia spesso trattata poco e male nei curricoli scolastici, a tutto vantaggio dell’ “epos” delle guerre d’indipendenza prima e colonialiste poi. Il tutto inframmezzato da amplissime trattazioni sul trasformismo parlamentare della neonata Italia, dai primi casi di bancarotta “pubblicistica”, e via di questo passo. Secondo lei, quanto potrebbe invece una storia più attenta al punto di vista di chi la subisce, restituire ai giovani l’amore per lo studio e la lettura?
Credo che sia quasi impossibile trattare la storia diversamente da quello che è: una serie cronologica di eventi che vanno dal passato al presente, in una concatenazione di causa effetto. La storia, come studio di questi eventi, non riesco ad immaginarla diversamente, perché se ci si fermasse sul singolo periodo, o sul singolo evento, o solo su avvenimenti contemporanei, non si riuscirebbe a possedere una sia pur vaga idea di come si è realizzato il presente e di cos’è stato il mondo. E sono anche convinta che ciò che siamo sia stato determinato proprio dai vincitori, addirittura dagli scampati alle malattie (come la peste). Scrivere la storia dalla parte dei vinti risulterebbe poi laborioso per mancanza di fonti certe: di solito, i vinti, non hanno voce nè accesso all’informazione scritta. Bisogna anche rammentare che si rischia sempre il revisionismo quando si fanno simili operazioni. Detto questo, penso che la storia “cronologica” sia, in realtà, composta dalle storie degli esseri umani, uomini e donne, vincitori e vinti, e che il compito di “tra-durre” (nel senso etimologico del termine) queste storie spetti alla letteratura, alle arti espressive, alla sociologia, alla filosofia, fors’anche alle religioni. Faccio un esempio. Quando, nella scuola elementare, ho voluto introdurre un ragionamento sulle discriminazioni, ho presentato ai bambini “Il grande dittatore” di Chaplin, e ho ottenuto il miracolo di vedere una classe in assoluto silenzio, a bocca aperta di fronte al discorso finale di Chaplin. Poi mi sono trovata a rispondere ad una miriade di domande e a dare chiarimenti sul razzismo, sull’antisemitismo, sugli assolutismi, sul concetto di democrazia. Leggere “La roba” o “Rosso Malpelo” di Verga con i ragazzi delle superiori è fare storia, e diventa molto più facile per loro capire la situazione delle lotte sociali dell’800 se si legge “Il mulino del Po” o se ne visiona la versione cinematografica. Sa qual è il problema reale? Non tanto che la storia venga presentata in modo cronologico, ma che alla maggior parte degli insegnanti manchi la duttilità mentale (e forse anche una preparazione intellettuale più compiuta?) per scostarsi un attimo dal libro di testo ed impiegare gli altri strumenti a disposizione: la letteratura, appunto, il cinema, il teatro, il racconto vivo, per la storia più recente, dei testimoni. In fondo, come siamo venuti a conoscenza noi della storia dei “vinti”? Pensi agli indiani d’America… “Il piccolo grande uomo” o le canzoni di De’ Andrè non erano forse stimoli per andarsi ad informare ulteriormente? Ho saputo delle torture e degli stupri inflitti dai nostri soldati in Africa direttamente da uno di quegli ex soldati e, giusto in questi giorni, un signore di 95 anni, che stava temerariamente avventurandosi nella lettura del mio libro, mi ha detto con un filo di voce: “Sapesse come abbiamo torturato gli abissini…” E se si discute a scuola sulla convenienza o meno dell’esposizione del crocefisso, non è forse una buona occasione da cogliere per spiegare che quella morte era comminata dall’Impero romano ai ladri e agli assassini, ai sovversivi, agli schiavi che si ribellavano, e che, se non c’è niente di storicamente provato sull’esistenza di Gesù di Nazaret, è invece certo che i crocefissi dall’Impero furono un numero assurdo? Per far appassionare gli studenti alla lettura e alla storia, bisogna essere appassionati alla lettura e alla storia, altrimenti ci si comporta da burocrati, limitandosi a scrivere due o tre voti a quadrimestre sui registri. E bisogna invitare i ragazzi, con l’esempio, ad “usare” il teatro, il cinema, internet, le biblioteche per approfondire le proprie conoscenze. Per capire com’era la vita nei manicomi, in fondo, basta andare a teatro a vedere “La pecora nera” di Ascanio Celestini… e si fa storia, sociologia, poesia, letteratura…
Cosa determina un autore ad affrontare un genere – il romanzo storico – tanto impegnativo, talvolta defatigante?
La convinzione che, in realtà, quella “cronologia” di cui le parlavo prima non sia poi così lineare, e che non sia completamente vero che il passato e il presente vengano uno dopo l’altro. C’è l’eterocronia degli eventi e dei luoghi. Insomma: se una ragazza marocchina mi mostra il Corano, poi lo mette via subito dicendomi che non poteva toccarlo, perché in quel momento era in condizione d’impurità, io vengo immediatamente sbalzata nel periodo storico regimentato legislativamente dal Levitico e dal Deuteronomio: ho il passato lì, seduto al mio fianco. E il ragazzo pakistano che fugge per cercare lavoro attraverso le montagne innevate a soli nove anni, e arriva in Italia dopo otto anni avendo subito, durante il viaggio, ogni genere di soprusi e violenze, ritrovandosi poi manovale schiavizzato da altri connazionali, è il passato che mi è contemporaneo. Il romanzo storico dovrebbe servire a questo: aiutare ad aprire gli occhi sul presente; ricordarsi che tutti gli Imperi, anche i più violenti, prima o poi crollano; ricordarsi che i diritti, dei lavoratori, delle donne, dei minori, non sono mai acquisiti per sempre, ma che bisogna impegnarsi per conservarli e perfezionarli. Ricordarsi che, come è scritto nel vangelo, il quale di documentato ha poco, ma che dice tanto del periodo storico: “I poveri li avrete sempre con voi”. Una maggiore dimestichezza con la lettura del romanzo storico eviterebbe poi tante ciarle ottuse, insensate e banalissime sui “veri valori di una volta” che affollano i salotti televisivi e i cervelli della gente. Io sono grata ai letterati contemporanei, come Sebastiano Vassalli, che affrontano il romanzo storico e danno a tutti la possibilità di entrare a contatto con documenti e fatti in un modo piacevole e coinvolgente.
Lei ci regala pagine che cadono come macigni sulla coscienza civile, femminile nella specie, fornendo la misura di quanti progressi abbiamo fatto noi donne rispetto all’inizio del Novecento, allorché la violenza di genere era non solo in qualche modo istituzionalizzata, ma neanche ci si sognava di sanzionarla. Purtroppo, però, cent’anni dopo stiamo assistendo ad una recrudescenza, drammatica e feroce, di quest’obbrobrio, perpetrato con agghiacciante infamia nei confronti di donne etero ed omosessuali; con pretese, in quest’ultimo caso, “normalizzatrici” (penso in particolare alla nefandezza nota come “stupro punitivo”). Cosa si può fare, secondo lei, per non avallare questa becera equazione donne = petites marionnettes, e combatterla con forza ed efficacia?