Candido o del porcile dell'Università italiana
Commenti (Ci sono storie che si conoscono già. Perché la tradizione orale non è poi veramente morta - e anche nella moderna era di internet non sono poi poche le "leggende" che nascono dal passaparola. Conosci qualcuno, che conosce qualcuno. E ti racconta di una cosa che è capitata ad un altro ancora. E quando questa ragnatela si allarga, e le voci iniziano ad arrivare, sempre più simili, da molte fonti diverse, anche quando tutto ti sembra plausibile, sorridi lo stesso, e pensi ai coccodrilli nelle fogne di New York, ai fantasmi nei cimiteri, e dici che, sì, dai, qualcosa di vero ci sarà, perché ogni "leggenda" nasce, ovvio, da un fatto, ma che di sicuro, con il passare da bocca in bocca, la cosa è stata esagerata, deformata.
Poi prendi in mano un libro come questo - dal lunghissimo titolo di "Candido o del porcile dell'Università italiana" - e ci ritrovi dentro, quasi filo per segno, molto di quello che tanti altri ti hanno raccontato sugli aspetti meno nobili di un importante settore della cultura e della ricerca nel nostro paese.
E questo volume, scritto da un docente "sotto pseudonimo", sostiene non solo di stare raccontando fatti e non fantasie, ma pure che la sequenza narrata è la vicenda di una sola persona. Un collega dell'autore, che, come il personaggio di Voltaire, - un Voltaire che assomiglia non poco a Kafka - si è trovato ad affrontare un mondo assurdamente ostile, contro il quale poco o nulla è possibile.
Un libro di denuncia, intelligente e attento, che, con quello stile leggero ma non frivolo di chi è abituato ad insegnare ai ragazzi, rende più affrontabile quel senso di sgomento e di sdegno che suggerisce invece con il contenuto. Un libro in cui si ritrova tanto di quel malcostume italico (ma forse non solo) che ha come effetto primario quello di favorire sempre e solo chi ha le spalle coperte. Chi ha un padrino. Un protettore. Lasciando gli altri - che possono ovviamente essere molto più competenti - solo posti minori, o più "complessi" da riempire, come ad esempio un dottorato "senza borsa".
I richiami letterari nel testo sono tantissimi. Ho citato Voltaire e Kafka, ma chiaro che il titolo (ancor più la copertina) "citano" Orwell. Ma ci si aggiunge facilmente Pinocchio - e tantissima altra letteratura nota.
Così che, mentre si passa da un capitolo all'altro, richiamando alla mente questo o quel ricordo si riesce quasi a immaginare l'aspetto di queste "creature" che affliggono l'esistenza del protagonista.
Riuscendo così a sorridere, di qualcosa che altrimenti farebbe solo rabbia. E riuscendo così un poco a credere - perché la mente vuole tornare a quel dubbio più felice - che, sia pure tutto vero, quanto narrato non sia l'unico quadro del mondo universitario nel nostro paese.